Durante i lavori di restauro del palazzo vescovile di Novara, condotti tra il 1988 e il 19921, fu rinvenuto un pilastrino inserito nella muratura del secondo piano in corrispondenza della loggia del vescovo Speciano. La sua funzione originaria era di sostegno di una polifora posta sulla parete occidentale della sala della Maddalena, irrimediabilmente mutilata dall’apertura di una delle finestre moderne da cui prende luce l’ambiente. Tale scoperta, poco nota per l’inaccessibilità del manufatto, permette anzitutto di ricostituire un piccolo, ma sostanzioso gruppo di sculture che erano pertinenti al palazzo e che oggi o sono decontestualizzate, o sopravvivono solo in testimonianze grafiche. In secondo luogo tale nucleo decorativo permette di formulare alcune ipotesi riguardo l’aspetto che doveva avere l’episcopio novarese in epoca romanica. In terzo luogo la contestualizzazione cronologica e stilistica di tale decorazione inserisce la città di Novara e il suo palazzo vescovile nell’ambito della produzione scultorea romanica di matrice lombarda ‘di qualità’.
Buona parte degli studi sullo scultore e architetto veneziano Andriolo de’ Santi è per lo più orientata a individuare e analizzare le sue opere sparse tra Venezia e l’entroterra veneto, mentre scarso e stato finora l’interesse rivolto agli aspetti riguardanti la formazione dello scultore e i suoi possibili modelli di riferimento.
Chissà se fu Luigi Malvezzi, con quella definizione di pittore di «secondo ordine», a segnare la sfortuna di Giovanni Ambrogio Besozzi (Milano, 1648-1706), artista che, a dispetto della fama e abilità riconosciutegli dai contemporanei, risulta fermo a una voce biografica datata, a una manciata di informazioni troppo settoriali per comprenderne l’effettiva personalità e portata e a un numero ridotto di opere, tra incisioni, disegnie dipinti, questi ultimi, tra l’altro, per lo più scalati tra l’ultimo decennio del Seicento e i primi anni del secolo successivo. Come altri artisti che popolano la pittura milanese tardobarocca, quella all’incirca compresa tra la riapertura dell’Accademia Ambrosiana (1668) e la piena affermazione del rococò, Besozzi è in attesa di uno studio mirato, in grado di intrecciare i risultati di un’attenta ricerca archivistica con quelli di un’indagine sistematica, almeno nei luoghi dove le fonti collocano la sua storia professionale.
Nell’ambito della riscoperta esperienza artistica di Giovanni Ambrogio Besozzi (Milano, 1648-1706), per la quale si rimanda all’articolo scritto da Eugenia Bianchi pubblicato in questo stesso numero della rivista, si ritiene opportuno presentare la figura di Giovanni Giuseppe Vagliano (Milano, 1636 - Domo Valtravaglia, 1721), grande promotore dell’attività di questo stesso pittore. Al riguardo, innanzitutto, è doveroso ricordare che l’importanza di questa trascurata voce della letteratura artistica lombarda già emerse, in precedenza, nel corso degli studi effettuati per la recente catalogazione della galleria Borromeo dell’Isola Bella, a opera di Alessandro Morandotti e Mauro Natale.
Nato nel 1620 in un piccolo villaggio della signoria di Neuchâtel in Franca Contea, Vincenzo Volò arrivò verosimilmente a Milano a metà degli anni quaranta, ricoprendo un ruolo artistico di primo piano nel ventennio compreso tra il 1650 il 1670. Detto anche ‘Vincenzino dei fiori’ per la straordinaria versatilità delle sue composizioni botaniche, fu il fondatore di una bottega di famiglia che impose il proprio stile dalla metà del secolo sino almeno al primo quarto del Settecento, arrivando a coinvolgere tre generazioni di pittori e pittrici e influenzando fortemente il gusto del collezionismo milanese per la natura morta. L’impresa familiare prese il nome di bottega dei ‘Vicenzini’, un patronimico adottato da tutti i figli e assurto a vero e proprio brand commerciale, un modo per identificare in forma immediata l’atelier in una città dove lo stesso nome di Vincenzo doveva essere percepito come estraneo alla tradizione locale e forse proprio per questo più caratterizzante e distinguibile.
La scultura lignea in Lombardia sullo scorcio del Seicento e nei primi decenni del secolo seguente è un settore della produzione artistica in larga parte inesplorato. Tra i numerosi casi si può citare quello della famiglia Sala, cui allo stato attuale degli studi non è mai stata dedicata una specifica indagine. L’attività di questa bottega, circoscrivibile all’area dell’antica diocesi di Pavia, merita invece un accurato approfondimento in modo particolare focalizzando l’attenzione su Carlo Giuseppe Sala, meglio conosciuto come Giuseppe Sala, e sul padre Francesco, non solo per la qualità delle opere, ma anche per la vastità delle competenze che spaziavano dalle sculture processionali ai cori lignei, alla progettazione di altari e modelli architettonici.
Nei depositi della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Lombardia sono conservati alcuni frammenti, pertinenti a due statue in terracotta, rinvenuti durante gli scavi per la realizzazione di nuovi edifici in via del Lauro a Milano, all’angolo con via Broletto, nell’ormai lontano 1959. Inizialmente ritenuti di epoca romana, anche in ragione del ritrovamento negli stessi scavi di fregi e statue in marmo riconducibili al primo e secondo secolo, i frammenti furono depositati presso la Soprintendenza e successivamente inviati alla mostra Arte e civiltà romana nell’Italia settentrionale dalla repubblica alla tetrarchia, tenutasi a Bologna nel 1964; i curatori rimandarono indietro le terrecotte, ritenendole opere non antiche. Solo nel 2000 i frammenti vennero sottoposti a un’analisi di termoluminescenza il cui esito, se pur espresso in termini vaghi, confermava le motivazioni del rifiuto dei curatori della mostra, collocando i pezzi in epoca rinascimentale.
«Item per manifactum unius Sancti Sebastiani marmoris factum per Matheum eius filium de anno 1522: L 40»: questo pagamento è segnato nella partita di Gaspare «de Anono» relativa ai lavori svolti per la Fabbrica del Duomo di Como nel periodo compreso tra il maggio del 1523 e il gennaio dell’anno successivo. Nel registro in cui è contenuto è annotato che, all’inizio del 1524, maestro Gaspare riceve 40 lire per una scultura marmorea raffigurante un San Sebastiano eseguita da suo figlio Matteo nel 1522. Si tratta di un documento indubbiamente molto interessante, in quanto permette di attribuire a un determinato scultore un’opera ben precisa realizzata per la cattedrale comasca, edificio per il quale lavorarono molte maestranze che, però, rimangono tutt’oggi prive non solo di una propria fisionomia artistica, ma anche, si può dire, di una propria identità storica.
Sullo scadere del Cinquecento l’urgenza di restaurare l’antica pieve di San Lorenzo era divenuta raccomandazione di rito nelle relazioni di visita alle chiese vogheresi. Nel 1576 il visitatore apostolico Gerolamo Ragazzoni rimarcava la necessità di interventi conservativi alla collegiata, mentre nel 1590 il vescovo di Tortona Cesare Gambara, nella prima delle sue visitationes diversae a Voghera, ricordava che la chiesa di San Lorenzo era «tempio antiquo e honorato e hel [sic] qual quel popolo vi ha datto principio per ridurlo a miglior forma». Nel 1594 il consiglio comunale di Voghera aveva rivolto una supplica a Juan Fernández de Velasco, governatore dello stato di Milano, per ottenere un’imposta straordinaria di tre soldi per ogni sacco di frumento per un triennio, da destinarsi al cantiere della collegiata. La licenza del governatore giunse in data 16 settembre 1594.
La storia della pittura di natura morta a Bologna presenta ancora molti punti oscuri. Le fonti ricordano numerosi specialisti del genere, dei quali però non si conosce alcuna opera. Simmetricamente, alcuni gruppi di opere – anche di grande qualità – sono tuttora assegnati a maestri anonimi. Il pittore noto come ‘pseudo-Vitali’ è stato individuato soltanto di recente, e deve il suo nome alla vicinanza ai modi di Candido Vitali (1680-1753). Gli scambi attributivi tra i due artisti sono stati frequenti, e ormai non occorre ribadire ulteriormente le loro analogie. Sarà più utile cercare di individuare le caratteristiche tipiche dell’artista anonimo, e di chiarirne per quanto possibile il ruolo nello sviluppo della natura morta felsinea. La vicenda critica che ha portato alla nascita dello pseudo- Vitali è nota, e basterà ripercorrerla brevemente.
«In quest’anno all’aprirsi della stagione si cominciò la nova facciata della chiesa esteriore»: così le cronache del monastero femminile benedettino di San Vittore a Meda annunciavano l’avvio nel 1730 dei lavori nella chiesa pubblica. La vecchia facciata, semplice e senza ornamenti, dopo quasi un secolo e mezzo lascia spazio a uno dei tanti esempi del barocchetto lombardo (fig. 1). Il cantiere si avvia nei primi mesi dell’anno, e la nuova facciata è compiuta in settembre, risultando a grandi linee come la vediamo oggi. Dalle indicazioni del Cronicon del monastero, insieme a quanto emerso dalle registrazioni dei Giornali delle spese, si può ricostruire la dinamica del cantiere, e individuare con buona precisione le personalità più importanti che vi hanno preso parte. L’inizio dei lavori si deve a due monache del convento: «donna Gioseffa Margarita, già abbadessa, e donna Antonia Maria, sorelle Bigiogere» che nel 1728 offrirono «lire 3000 per cominciare la detta fabrica, quale havesse poi a continuarsi a conto del monastero».
Nel 1918 Georg Gronau rese noti i taccuini di schizzi di Guglielmo della Porta conservati a Dusseldorf, pubblicando anche parzialmente una lunga lettera – da datarsi al 1569 – dello scultore-architetto a Bartolomeo Ammannati. Ripresa nell’agile monografia di Maria Gibellino del 1944, e poi trascritta integralmente da Werner Gramberg nella sua esemplare edizione dei taccuini di Dusseldorf del 1964, questa lettera sembra essere sfuggita all’attenzione di gran parte della critica. Nella missiva, evidentemente pensata perche avesse un’ampia circolazione a Firenze, il comasco della Porta si presenta nell’inedita, o quasi, veste di trattatista d’arte, toccando temi tra loro molto diversi, dalla tecnica della fusione in bronzo alla teoria dell’architettura, fino agli studi di antiquaria4. L’autore abbozza tra l’altro una scansione della storia della pittura e della scultura italiana secondo il sistema delle scuole regionali, quale sarebbe stato messo a punto per la prima volta solo quarant’anni piu tardi da Giovanni Battista Agucchi, e muove un’implicita critica al carattere strettamente biografico delle Vite di Giorgio Vasari.